venerdì 23 settembre 2016

Ritorno a casa delle diciannove e trenta.

Flusso senza pretese, per togliere un po' di senso alle cose che ne hanno troppo, ascoltando "L'autre valse d'Amélie" di Yann Tiersen.

Un uomo raccoglie qualcosa, andando verso il sole delle sette e mezza di sera. Piegato sui suoi capelli di ruga bianca, scruta il tesoro.
Spiragli tra i cantieri vergognosi.
Salici piangenti accarezzano quasi sampietrini sporchi di tempo andato, allungano piano le dita verde chiaro. “Non si è mai vista tanta delicatezza in un solo metro quadrato” direbbe la voce narrante di una storia che comincia.
Il testardo peso delle buste della spesa spinge verso il centro della terra.
Ballerini verdi sulle saracinesche si contorcono ancora, quando nessuno li guarda.
Tendoni dormono piegati su loro stessi, sei o sette volte.
Fiorai chiusi di domenica incoraggiano il sabato a fiorire di più.
Librerie dormono ma non vogliono. Chi racconta loro le favole?
È difficile camminare su tacchi beige a cinquantasei anni.
Un uomo indietreggia, ci ha ripensato sulla sua vita, ancora una volta. Ha sempre fatto la parte di quello che ci ripensa e così ha perso una moglie, o forse due.
Un'agenzia di viaggi porta ovunque ma rimane sempre lì.
Arredamenti ben disposti ma malamente disabitati.
I cassonetti della carta non lamentano intrusi di alluminio.
Garibaldi nel 1886 non sapeva che gli avrebbero dedicato una statua con il braccio rivolto in alto verso le nuvole.
Le canottiere danzano scomposte per il vento in bici.
La gelateria vende anche qualcosa di caldo, ma pensavo non potesse.
Un palazzo grigio si tinge di rosa alle diciannove e trentaquattro minuti.
La bretella di un reggiseno bianco vuole vedere oltre quel buio di maglietta a fiori.
I parcometri vomitano carta. Non credo che a loro piaccia granché il sapore delle monete.
Che ci fa un palo solitario su una rotonda? Il vigile, lo spettatore, l'essere inumano.
Le strisce pedonali sono sbiancate. Non sta bene.
Non sta bene che una donna abbassi lo sguardo di fronte ad un vestito troppo piccolo per lei.
E quelle vespe che spaventano tutti, ma si chiamano api.
Spero non l'abbiano schernito quell'uomo con la camicia rosa chiaro.
Al semaforo si aspetta anche se non serve. Quantomeno per rispetto del suo lavoro e della pazienza che nessuno ha mai e che nessuno ha più.
I graffiti stanno zitti mentre l'artista spaventato dalla vita li urla.
Il sole ha vinto a nascondino, non si trova. Faccio tana libera tutti.
Le estati non possono essere fredde. E non lo sono pensa te, ma i cuori sì.
Le cassette della posta fanno la linguaccia con le riviste dei supermercati che nessuno rispetterà mai.
I fili del treno dove finiscono?
I bambini si fanno gli affari loro stando assieme.
Auto dormono perché vogliono partire.
Le camicie non gradiscono stare a testa in giù per asciugarsi, eppure fatto sta, me l'ha detto un uccellino.

Eppure, le persone sono troppo lontane dai nostri cuori.

mercoledì 14 settembre 2016

Renée passeggia.

Racconto scritto ascoltando "Salento" di René Aubry.

Renée passeggia da sola per le vie della città color giallo mezzogiorno, le lucertole prendono il sole in piazza, le esuvie delle cicale se ne stanno confuse con la polvere negli angoli arancioni, il vento gioca a fare silenzio nel rumore dei tacchi di lei. Renée passa una mano sulla fronte, si scontrano gli anelli dei suoi colori più belli, tintinnano le gocce di sudore mentre navigano verso sud, ma nessuno se ne accorge. Nessuno se n'è mai accorto. Un bambino corre veloce e lei si chiede come fa, con quel caldo giallo di mezzogiorno, a correre così. Magari ha un treno da non perdere, un basilico lasciato sotto il sole, la penna di dieci anni prima sdraiata su un tavolino color nuvola quando piove. Lei non ha treni da perdere, dopo averli persi tutti ha perso anche l'ora, il basilico l'ha sempre bruciato poverino, rifiuta di affezionarsi alle penne, infondo rilasciano solo inchiostro, non sentimento. Renée cerca qualcosa con le mani sulle pareti color muro un po' sbiadito, tipo giallo sporco, cerca la forma di quella duna che aveva accarezzato il giorno prima con le dita, cerca il sentimento che non trova, cerca lo spuntone da evitare per poter avere l'occasione di scorrere oltre. E infondo avere le dita color muro non sarebbe nemmeno tanto male, almeno a casa avrebbe qualcosa da lavare meglio, col sapone profumato. Poi taglierebbe il sedano, sposterebbe i barattoli, annaffierebbe i gerani, con le dita ancora profumate di menta fresca.
E se la parete non finisse mai?
Dovrebbe mettercela lei una fine a tutto questo scorrere delle dita, che sembra quasi il mare quando fa le pieghe e si corruccia tutto, contraddetto da qualche cosa degli abissi che non è dato sapere.
Il sole scalda il giusto sotto l'ombra, ma sempre troppo due centimetri al di là dei balconi barocchi.
Il vestito a fiori di Renée è troppo pesante, scoperto, ma pesante. Infondo non importa molto il tessuto se c'è la voglia di indossarlo sulla pelle. I buoni propositi pesano si sa, come il vestito a fiori sulle sue spalle gracili tutte dritte, ondulate. Ad ogni passo l'abito danza un po' intorno alle sue gracili gambe, prende le misure senza il metro da sarta, stavolta va ad occhio e croce.
Renée passeggia, chissà dove va questa mattina. Quando arriva in via Libertini immagina sempre due occhi che la seguono, solo per il gusto di immaginare dove possa andare una ragazza così, mentre carezza con cura le pareti. Una vecchina, un nipote del postino, un avvocato in ferie, non sa a chi potrebbero appartenere quegli occhi, lei li sente e basta. Renée decide che questa mattina non sarebbe passata semplicemente oltre, avrebbe aggiunto una virgola alla frase. La maestra glielo diceva sempre da piccola che parlava troppo tutto d'un fiato e che non andava bene in fin dei conti. Renée alza lo sguardo al balcone, il solito, è sicura, è pronta a conoscere le pupille che ha sempre sentito sulla pelle.
Nessuno la osserva, né tanto meno la ammira. C'è una girandola che gira lenta, lenta, lenta, su se stessa. Nessuno le ha chiesto la mano per danzare un valzer col vento, allora ha iniziato a ballare da sola, pensa Renée. Infondo le dispiace un po' di più per la girandola solitaria che per il volto di nessuno che non la aspettava sul balcone. Ci avrebbe visto bene un bimbo rosso come un palloncino tutto gonfio intento a soffiarci sopra. Almeno avrebbe provato tenerezza, e anche un po' di malinconia forse. Dispiacersi per gli oggetti è sciocco, glielo diceva la zia ogni volta in cui vedeva il suo viso incupito all'improvviso. Il tavolo non parla e i sogni fanno anche un po' male. Bisogna ricordarsi di questi dettagli di tanto in tanto.
-Signorina, si sente bene?
Renée si è appoggiata alla parete, forse un po' troppo, se fosse stata orizzontale ci si sarebbe seduta sopra, comodamente.
-Sì, io sto bene, lei come si sente?
Il signore con la maglietta verde oliva, di quelle che rimangono con lo stecchino infilzato dentro, sul fondo di un Martini, è andato via. Probabilmente voleva assicurarsi che lei non stesse morendo, quello sarebbe stato proprio un brutto inconveniente in una mattinata color giallo. Di solito si muore col grigio sporco, grigio topino. Gli aveva risposto e lui era andato via. Chissà come si sentiva.
Renée improvvisamente sente il bisogno di chiedere ai passanti come si sentono. Però non tutto quello che si sente dentro si può esprimere, che peccato. Qualcuno da qualche parte nel mondo se potesse ascoltare questo suo pensiero a braccetto con quegli occhi delusi scuoterebbe il capo. Questa mattina troppe cose succedono all'improvviso. È una di quelle mattine in cui si dimentica la pentola a pressione sul gas. Per fortuna lei nemmeno sa come sia fatta la famigerata pentola a pressione, un essere mitologico che vive nelle grotte più profonde e recondite.
Osserva la vetrina di un negozio di gioielli, butta l'occhio come uno yo-yo in una sala con le volte a stella e scorge dei quadri appesi, poi un uomo buttato su una sedia, una bottega in cui ci starebbe bene un calzolaio, un ristorante greco. Di greco Renée conosce solo la pita e cerca ancora di capire se sia un formaggio oppure una piadina arrotolata come un fazzoletto di seta nel taschino di una giacca elegante, tutta nera. 
Adesso ha sete, berrebbe una cascata intera, anzi tutta l'acqua del mondo. Compra una bottiglietta d'acqua in un bar, rallenta il passo per fare due sorsi veloci ma dissetanti. Un rivoletto scorre lungo il suo mento, saluta il collo in discesa e si perde tra i seni abbronzati. Si asciuga con la mano il mento, come fosse sporca di cioccolato e non di trasparenza. Butta la bottiglia ancora gocciolante nella borsa di tela, così anche gli oggetti possono avere un po' di refrigerio. Si bagneranno e si asciugheranno in silenzio, senza lamentarsi. 
Renée guarda l'orologio distrattamente, pensa a cosa mangerà per pranzo, qualcosa di freddo sicuramente. Immagina di mangiare ghiaccioli e pesce fresco con un pinguino sul parquet di casa. Poi vorrebbe che un postino le consegnasse una lettera d'amore, profumata di un luogo lontano lontano, caldo e arancione. Non è a casa per riceverla e non c'è nessuna cassetta della posta lì con lei, ma spera che un postino arrivi lì, dopo averla rincorsa per chilometri, tutto trafelato, solo per consegnarle una lettera profumata. Lei ce lo mette il profumo sulle lettere, prima di spedirle.
Renée inciampa tre volte, su una mattonella storta, su uno scalino e poi sui suoi stessi piedi. Spinge una porta pesante e alta. Entra in una libreria che galleggia nell'aria condizionata, con un bar annesso dietro alla zona dei nuovi arrivi. Si appoggia su una pila di romanzi vicino alla cassa per riprendere fiato, si guarda in giro cercando un nome, un posto dove viaggiare.
-Buongiorno signorina, desidera qualcosa?
-Sì, grazie, vorrei un po' di tempo.
-Ah certo faccia pure, allora se le serve una mano mi trova qui dietro.
-No ecco, vorrei proprio un po' di tempo.
-Non sono sicuro di capire, signorina.
-Ha presente quando vorrebbe ballare il tango senza sapere dove mettere i piedi, mangiare una pita per il gusto di scoprirne la forma, scoprire chi si affaccia da un balcone tutte le mattine? Vorrei un po' di tempo dunque, capisce?
-Sì capisco, probabilmente, ma non so come aiutarla davvero.
-Bene, allora vorrei una favola fresca, ma che sia lunga. Voglio stare qui per un po'.
Renée si siede su una sedia lì accanto. Si passa le mani sul viso sudato e accavalla la gamba destra, nascosta sotto al vestito pesante.
-Ah, posso chiederle un'altra cosa?
-Certo, signorina, ma sarà altrettanto complicata?
-Lei, come si sente?


martedì 6 settembre 2016

Fil de verre.

Racconto scritto ascoltando "Fil de verre" di René Aubry.

È un giorno come gli altri, sul pianeta terra. Un giorno come sempre, o forse per un pezzo.
"Fil de verre" danza. La vedo spostarsi delicata lungo un filo teso teso come quello dove dormono le lenzuola a testa in giù, sospinte dal vento. Tutto il mondo si è fermato, solo per ascoltarla. Le dita rimangono sospese sui tasti, i piedi immobili sull'asfalto abbruttito, i gomiti ruvidi, le impronte di volpe sulla terra. Un signore affannato con una valigetta di cuoio in mano torna a respirare, se n'era dimenticato poverino, “non c'è tempo, è tardi!” pensava forse.
Tutto il pianeta la guarda muoversi, funambola, sul lungo filo di vetro. Mollette non ce ne sono, e nemmeno nuvole questa volta, solo il silenzio. Tutto è liscio, lucido, trasparente. Nulla offusca nient'altro. L'opaco non è mai esistito. Le persone seguono le sue note sul filo con occhi di perla. Hanno la bocca spalancata, non temono nulla, nemmeno loro stessi, nemmeno le mosche curiose. Batte piano, il cuore. Sfoglia le pagine il vento silenzioso, anche lui passa e non disturba.
Permesso, potrei soffiare un pochino, proprio qui.
Prego signor vento, qui la solitudine finisce e inizia la meraviglia.
Le note più sottili svolazzano, disperdono piccole piume bianche che cadono giù. Scivolano volteggiando in una danza, la prima, l'ultima, per questo la più bella di sempre. Si posano lentamente sui nasi di chi le guarda ancora ballare su filo di vetro. Il mondo è un teatro e l'ingresso gratuito. Carezzano le mani stanche, i ventri gonfi, le spalle rosse, le ginocchia sbucciate, le coste rotte, così come le promesse. Le piume piangono lacrime di rugiada fragile. Tanto nessuno le sente, nessuno le vede, tutti ammirano il filo di vetro e il gran ballo della sera.
Nessuno era stato invitato, eppure era atteso tutto il mondo.
Quando la danza ha avuto inizio, tutto il mondo ha taciuto, non c'era improvvisamente più bisogno di nulla, bisognava solo lasciare spazio alla meraviglia.
Bisogna lasciare spazio alla meraviglia.
Le persone iniziano a piangere. Lacrime dolci, soffici, trasparenti carezzano le guance. È una guarigione inattesa, eppure tanto sperata. È una commozione ricolma di tutti i motivi del mondo. Uno ad uno scendono, scivolano giù fino alla punta dei piedi. È un fiume, leggero, fragile, lungo, rivoletto dove vai. Scorri via, dove sei. Sono ovunque, non mi vedi?
C'era una volta un mondo in lacrime di vetro, trasparenti, buone, una danza tutto attorno che illumina il cielo, anche quando dentro fa buio e le lucciole si svegliano. Lo stupore precede l'incanto e l'incanto perdura, scalda i cuori di tutti i colori.
Quando finisce il filo di vetro? Non finisce, non ti preoccupare. Non finirà te lo prometto, questa volta sarà per sempre.
Restiamo qui. È un bel posto per restare, non è vero?
Piove tutto attorno e la pioggia lava via le righe bagnate sul viso.

Il mondo si sveglia, è di nuovo buongiorno. Tutti ritornano a casa nuovi. Le persone si guardano piano, sorridendo con amabile delicatezza: la fretta non è mai esistita. Si cercano, si trovano, si tendono la mano. Torniamo a casa assieme, stanotte guarderemo il mare dalla finestra della camera da letto. Stanotte allungheremo il cannocchiale verso la luna e affogheremo nei suoi bianchi orizzonti. Nei suoi grigi crateri incontreremo i nostri giorni migliori. Faremo girotondo tutto attorno. Nascondino, pescami, trovami, con tutte le regole che vuoi, basta giocare. Torniamo a casa assieme, stanotte piegheremo i fazzoletti di stoffa a forma di barchette che non si scioglieranno nell'acqua. Navigheremo lontano, dove c'è il bel cielo e tanto arancione, così non hai paura del blu oltremare, quello che se ti prende ti toglie l'aria. Ti darò la mia aria, la condividiamo, così non ti mancherà mai. Torniamo a casa, ti massaggio le tempie, non soffri più. Ho steso un tappeto di fiori fino alla porta d'ingresso. Se vuoi dormiamo e io accarezzo i tuoi sogni, tu se vuoi non te ne accorgi e tieni gli occhi chiusi. Soffio via gli incubi più ocra, e i mostri che fanno salotto sotto al letto. Torniamo a casa assieme. Stanotte sono piovute note di vetro. Ho socchiuso gli occhi. Ho fatto un palloncino di stelle, te lo voglio donare. Poi magari ci tuffiamo dentro e ci perdiamo un po' per sempre. Tanto abbiamo noi, noi chi? Noi stessi, non è sufficiente? Se ti concentri galleggi, ma basta poco, così non vai a fondo.
Ti voglio bene. Ha piovuto, abbiamo pianto vetro, ora seguiamo il fiume, il filo te lo cucio sul cuore, con la neve che verrà.
Stanotte, sulla luna, per te.


Le note si adagiano lentamente sul filo di vetro come ballerine stanche, barcollano un po', qualche piroetta ma la stanchezza il cielo non la vede da lassù. Avanzano scivolando, è un lungo lago ghiacciato: è la fine del primo atto. Scivolano, giù giù giù, buonanotte René.